Yogi sotto un albero di banano - 1630 Moghul |
Gioia Lussana, laureata cum laude in Indologia con una tesi
sullo śivaismo kaśmiro, è docente di yoga iscritta alla Y.A.N.I. e
insegna alla scuola di formazione per insegnanti yoga dell’Uptersport.
Ha approfondito le pratiche energetiche e meditative del taoismo antico (qi gong) conseguendo il diploma intermediate riconosciuto
dall’Università di Pechino. Attualmente ha in corso un dottorato di
ricerca con il prof. R. Torella presso l’Università “La Sapienza” di
Roma sul tantrismo tradizionale indiano.
“E’ uno stato
impossibile a descriversi. Non si può che vivere
Asana non si
prende
si fa da sé
Asana è lo scopo
finale”
(Dall’insegnamento
di Gérard Blitz ne: Il filo dello Yoga)[1]
Sedersi tranquillamente
Volendo rintracciare i molteplici significati della complessa
esperienza dell’asana, partiamo dalla
radice sanscrita as da cui il termine
deriva. Già la semplice lista che compare sotto il verbo as, secondo il dizionario Monier-Williams[2],
apre uno scenario quanto mai invitante e poco esplorato, laddove la dialettica
corrente intorno alla parola asana
scade troppo spesso in una angusta banalizzazione. Leggiamo: sedersi, restare;
essere presente, esistere, abitare; stabilire la propria dimora in; restare
tranquillamente, dimorare; cessare; celebrare; fare qualcosa senza
interruzione, in modo continuo, continuare, durare.
Il termine asana, si
ottiene sostantivando il verbo mediante l’aggiunta del suffisso ana, e, sempre leggendo il dizionario
sanscrito, significa: ‘il sedersi nella posizione tipica dei devoti’, implicando
cioè un’attitudine sacrale e riassumendo in sé tutti i contenuti che as fa trasparire. Non è dunque tanto
importante in quale postura sedersi, né che sia insolita o
acrobatica, ma che sia una qualsiasi posizione comoda - qualità che lo stare
seduti implica - di supporto a una coscienza allargata. L’esperienza dello Yoga
è in se stessa questa coscienza espansiva, inclusiva, che scopre i nessi, la relazione, tra se stessi e il mondo, dopo
aver assaporato intimamente la qualità dell’essere. La posizione del devoto non ha dunque valore di per sé, ma per ciò che
rende possibile, anche se, in ultima analisi, asana è un’esperienza globale: corpo e attitudine interna diventano
tutt’uno. In seconda battuta, asana è
la ‘sedia’ su cui stare e già nell’India vedica con questo termine veniva designato
il seggio posto accanto all’altare, lasciato appositamente vuoto, poiché
predisposto ad accogliere la divinità stessa, chiamata a presiedere il
sacrificio. In India, da sempre, ci si siede comunemente a terra, accovacciati,
forse per l’arcaica consuetudine di non interrompere il contatto e il legame
con la Madre Terra che ha generato tutto ciò che esiste. L’uso di un supporto
rialzato allude a qualcosa di non ordinario, senza per questo svalutare, anzi
casomai avvalorando, la fondatezza del rapporto con la terra che costituisce il
legame originario e sacro per eccellenza[3].
La ‘non-ordinarietà’ di predisporre un supporto, riguarda l’evocazione del
divino, l’invito rivolto al numinoso
perché si manifesti o si risvegli nel devoto, venendo ad abitarlo coscientemente.
Il piano rialzato da terra allude quindi alla ritualità, al gesto di
‘insediarsi’ in una dimensione ulteriore, l’avvicinarsi al cielo, come sintesi
tra le due direzioni della ricerca: il basso e l’alto. Lo ‘straordinario’ è il
tempo del rito e l’asana dello Yoga
si configura come il luogo allestito per accogliere tale evenienza in una sorta
di celebrazione dell’esistente, che palesa in noi la presenza stessa del divino.
In questa accezione di ‘seggio’, luogo predisposto per un tempo speciale,
l’asana ci riporta al rituale
dell’edificazione del tempio nell’India antica come raccontato nello Sthalapurana[4].
La divinità chiamata viene a insediarsi - o più specificamente a ‘sedersi’ -
nel luogo-matrice, la parte più sacra del tempio, e vi prende dimora (pratistha). Potremmo paragonare Il luogo
sacro dell’insediamento che in India è chiamato kshetra (campo) al temenos
greco o al templum latino: quella
porzione separata e circoscritta che il dio viene ad abitare.
Essere è vedere
Stare seduti favorisce l’atto creativo - come esplicitamente
ritroviamo in alcune iconografie bizantine del Cristo Pantocrator[5],
che dà il via alla creazione seduto, con le membra pacatamente a riposo. La
postura assisa determina lo stato mentale più favorevole all’emergere dell’intuizione
creativa o - in altri termini - all’emersione
del sacro. Più semplicemente il sedersi permette con agio lo scorrere delle
cose, il fluire della vita: da uno stato sollevato,
accomodato, privo di tensione, può spillare abbondante e senza ostacoli il
flusso spontaneo di tutto ciò che vive. La tranquillità della posizione seduta
rende plausibili ulteriori considerazioni: quando sediamo, semplicemente siamo senza dover far fronte necessariamente
a qualche cosa. Stiamo bene: si
manifesta cioè un agio naturale, una condizione di benessere che permea la nuda
sensazione di esserci. I testi più antichi dell’India religiosa definiscono
l’Assoluto sat-cit-ananda, ovvero
Essere-Coscienza-Beatitudine. Tale sintetica connotazione si avvicina
all’esperienza che stiamo descrivendo. Dal puro essere scaturisce un ben-essere
naturale e quando niente interrompe o intralcia tale stato, una terza
fondamentale implicazione si manifesta contemporaneamente: la consapevolezza di esserci. Non soltanto
siamo e stiamo bene, ma siamo coscienti di esserlo. Questo testimoniare silenzioso
e partecipe costituisce in sé la contemplazione vera e propria, che l’asana induce e supporta.
Dalla ‘sedia’ al ‘tempio’ siamo giunti a considerare alcune implicazioni
del verbo as, ognuna delle quali rimanda
a un’attitudine eminentemente contemplativa. Sedersi è il sostare con agio (sukham), quando non si ha alcuno scopo
da raggiungere se non sentire fino in
fondo ciò che è presente. E’ l’atto di dimorare a lungo, senza ‘distrarsi’,
poiché totalmente volti a essere
l’esperienza e quindi a impregnarsi a fondo di essa, gustandola per quello che
è, senza desiderare che sia altrimenti. Tale stato coincide con l’osservazione
fine a se stessa, il puro contemplare. Esso comporta, come abbiamo visto,
l’attitudine dell’assaporamento: è lo star
bene che ci consente di stare tout-court e vedere quello che c’è. E’ interessante a questo proposito che il
termine sanscrito bhoga, fruizione,
godimento, significhi pure esperienza in senso lato. Si potrebbe aggiungere che
la quintessenza dell’esperire è non solo il gustare,
collegato all’esserci coscientemente, ma anche il creare, ovvero l’affiorare
dell’intuizione (buddhi), la parte
più nobile, divina, della mente
umana.
Uno spazio ‘custodito’
Il contemplante è colui che osserva senza fretta, con agio
rilassato, liberamente investigando, quasi dimentico di ogni altra cosa, ma
cosciente della sua condizione. Contemplare (cum-templum) non è però ‘vagare a caso’ o in ogni luogo: è invece
circoscrivere il templum appunto, tradizionalmente
quella porzione ben delimitata di cielo o spazio sacro che l’augure osservava
per trarne i suoi presagi. Esiste dunque uno spazio prescelto in cui l’atto del contemplare si svolge e nel
rituale dell’asana questo spazio è il
corpo. La delimitazione del luogo non implica nell’atto contemplativo una
restrizione coatta del campo di esplorazione, né un porre limiti alla libertà o
profondità dell’esperienza. E’ vero il contrario: nello Yoga la continenza non è mai coazione repressiva,
ma è piuttosto quella custodia interna, che mette le ali alla libertà della
coscienza.
La radice verbale yam ha
in questo senso un ruolo preminente nella prassi yogica. Termini fondamentali
come yama, niyama, samyama, come
pure pranayama, sono costituiti da
questa radice che evidenzia la centralità dell’elemento ‘custodia’,
‘vigilanza’, ‘difesa’, ‘cura’, ‘preservazione’ che la disciplina interiore (yoga) mette in atto. Non si tratta
quindi di controllo o dominio nel senso che comunemente
tendiamo a dare, quanto di ‘covare’, ‘riscaldare’, ‘nutrire’, ‘proteggere’ lo
stato di unificazione interna che la prassi yogica attua. Il controllo è spesso inteso come una
qualità costrittiva del percorso ascetico, senza comprenderne la più vasta
portata. Yam è sostenere, tenere,
reggere, stabilire, non smuovere, prima e piuttosto che: tenere a bada, frenare,
controllare. In ogni caso il freno che la radice verbale prevede è all’insegna
del custodire/proteggere piuttosto che dell’irrigidire/bloccare. Significa
mantenere il processo stabilizzato nell’alveo che ne favorisce la libera
maturazione. Proprio questa difesa
custodita, che può evocare l’immagine del tuorlo nell’uovo o dell’embrione
nel liquido amniotico è la caratteristica dell’asana, che favorisce l’attitudine contemplativa.
Dalla terra al cielo
Esiste inoltre una direzione privilegiata nella pur libera
spaziosità dell’atto contemplativo: dal basso verso l’alto, dalla terra al
cielo, che corrisponde all’elevazione dell’energia o al ritorno verso l’origine
(ulta sadhana o viparita) del percorso yogico. L’energia vitale si muove secondo
una modalità spiraliforme e ascensionale, come è dato di sperimentare nella
pronuncia del pranava, il
mantra Om (in un movimento
interno dall’addome alla testa: uccara[6]).
Nella permanenza in asana si può sperimentare
concretamente il tragitto energetico dal radicamento in basso al volo verso
l’alto. Spiccare il volo verso il cielo
della coscienza, la cavità cranica, come l’oca esoterica (hamsa), presuppone sempre un vero e
proprio atto di gestazione o di custodia interna in un altro luogo, cavo e
oscuro, che costituisce la terra della
coscienza, la sede dove kundalini,
che vi ha preso dimora, giace addormentata nelle sembianze di un serpente. E’
interessante ritrovare nell’attitudine preservata e raccolta dell’asana la forma ricurva e attorcigliata (kubjita) della coscienza come matrice
originaria in quiescente latenza.
Un fuoco che cova sotto
la brace
Mentre abitiamo l’asana
è innanzitutto questa qualità liminale,
quasi in dormiveglia, della coscienza che ci è dato di incontrare e quando
l’energia riposa, la sua potenzialità
dormiente è oltremodo vigorosa,
proprio come in un bocciolo non ancora dischiuso o come quando pronunciamo solo
mentalmente un mantra tradizionale: in
quella modalità sottile il suono rivela con tutta la forza la sua natura essenzialmente
energetica. Nel mito Shiva, assorto in meditazione, viene distolto da Kama e,
al colmo dell’ira, incenerisce il dio che costituisce la forza prorompente
dell’eros. Kama può essere distrutto
nella sembianza esterna, ma in forma latente la sua vitalità è indistruttibile,
è la vita stessa. Allo stesso modo, Kundalini
è l’energia della vita in forma celata che cova se stessa, alimentando in
sordina, ma costantemente, il suo fuoco. E’ questa la potenzialità che ci è
dato di riscaldare e di stimolare rimanendo tranquilli nella postura yoga. Non
tutti arrivano a sperimentare il risveglio completo della potente energia di
base, ma già la semplice custodia cosciente del nostro potenziale energetico è Yoga
a tutti gli effetti.
Il cuore dell’asana
‘Stabilire la propria dimora’ nell’asana è in primo luogo un invito rivolto a noi stessi, una
predisposizione a ricevere, ad ascoltare, a lasciar essere. C’è quindi un primo
tempo per così dire di assestamento, in cui facciamo
spazio e sistemiamo le cose,
invitiamo noi stessi ad accomodarci nel luogo prescelto, la postura. Questa
fase di accesso, propedeutica, ha una durata variabile e soggettiva, connotata
da un dinamismo di tipo esteriore. Entrati nel cuore dell’asana, semplicemente stiamo, non alimentando più alcun movimento
esterno, permettendo alla vita che è in noi di esprimersi a suo piacimento,
proprio in virtù dell’attitudine tutelata che l’accoglie. Il corpo diviene
custodia e all’interno si sviluppa liberamente un calore vibrante che si ravviva
ed espande, disegnando la postura vera e propria. Una volta entrati nella
posizione finale, in mezzo al vortice incontriamo un nucleo immobile, fatto di
energia, ma stabile, il vero cuore dell’asana.[7]
In quel luogo tutto si cheta, come quando al calar del sole, prima che scenda
il buio, la natura vive un attimo di sospensione: gli uccelli smettono di
cantare e tutto si ferma e tace. Immobilità vibrante e palpito immobile
costituiscono un paradosso emblematico dell’esperienza yoga.
Permanere è incontrare ciò che non si muove in mezzo al
movimento, è incarnare il luogo dell’osservatore,
che nel farsi dell’asana diviene
anche ciò che è osservato, il
movimento tutto intorno. E’ altresì nutrire la naturale espressione
dell’energia vitale che ci abita, come una madre che custodisce in grembo
l’embrione. Esso si sviluppa quieto e in relativa autonomia, secondo un ordine
geneticamente prestabilito. Quello che la madre può fare è predisporre un
ambiente favorevole alla sua evoluzione e questo è il ruolo dell’asana: ciò che matura e si rivela all’interno
è in parte imperscrutabile. Ciò che si vede fuori - nell’asana come in un embrione che cresce - è una determinata forma fisica, che esprime però in sé il
libero, cosciente e misterioso manifestarsi dell’esistenza.
Il significato di ‘cessare’ che pure riscontriamo nella
radice as, evidenzia un
coinvolgimento assoluto. L’asana
comporta un’attitudine della coscienza completamente assorbita al suo interno:
cessa ogni interesse limitrofo e quasi diventiamo
il luogo in cui ci troviamo, non c’è
più posto per altro. Tutto il resto è sospeso.
‘Celebrare’, ulteriore significato di as, deriva dalla radice indoeuropea kal (quella di col-ere,
coltivare), è muoversi, spingere: coltivare era ‘spingere innanzi l’aratro’,
come l’inesauribile spinta in avanti della vita nel suo flusso incessante.
Altra radice connessa è car, muovere,
vivere. Ma celebrare è anche ‘attendere con cura’, ‘rispettare’, ‘venerare’,
‘frequentare, abitare’, nel senso di fermarsi a prendere dimora, restare a
casa, finalmente, dopo aver forse a lungo vagato. Adesso si può semplicemente
stare, poiché tutto è stato già fatto, rimane soltanto l’agio della
contemplazione, senza altro scopo che partecipare con attenzione non
interferente alla quiete vibrante di
ciò che vive. Questo è ‘solenne’, ‘glorioso’, è celebrazione. Questo è l’atto
sacro per eccellenza.
[1] Il filo dello yoga, Estratto
dell’insegnamento di Gérard Blitz, a cura di Carla Sgroi e Ivano Gamelli, La
Parola, Roma 2011.
[2] Monier-Williams, A Sanskrit-English
Dictionary, Oxford 1970 , 1st ed.1899. Cfr. anche Dizionario
sanscrito-italiano, S.Sani, ETS 2009.
[3]
Da una comunicazione personale con Chandra Cuffaro, grande esperta di Yoga, che
ha incontrato l’India religiosa negli anni ’50, apprendiamo che fino agli anni
’30 e in parte fino al 1955, nelle case dell’India del sud non esisteva
mobilio: la vita, nelle sue molteplici attività, avveniva a contatto con la
terra. Questo modo di vivere rendeva il corpo umano particolarmente versatile e
flessibile, pronto ad assumere con facilità posizioni oggi inarrivabili non
solo per gli occidentali, ma per gli indiani stessi.
[4] Cfr.
A,Padoux, Tantra, Einaudi, 2010.
[6]
L’enunciato di un mantra si dice uccara (ud+cara), che
letteralmente significa pulsione ascensionale, salita all’interno del canale
centrale (sushumna). Ogni mantra è orientato per natura verso l’al
di là.
[7]
Gérard Blitz, uno dei primi e più autorevoli interpreti dello Yoga
contemporaneo, ebbe l’intuizione del centro immobile della coscienza:
“Nell’Hatha Yoga la coscienza della centralità induce la coscienza dell’essere.
Il nostro equilibrio profondo si regge sulla percezione, sulla coscienza
dell’asse centrale. Un asse centrale è per definizione immobile. Il movimento
si crea attorno all’asse – il mozzo della ruota, l’occhio del ciclone…” Il filo dello Yoga, op. cit., p. 108.
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